sabato 19 febbraio 2011

L’Apostrofo che divide e discrimina


Questa mattina, o meglio...stanotte in preda ad un raptus febbricitante...mi sono messo a ragionare sulle insolite faccende di scarso interesse pubblico e di enorme interesse privato, ovvero totalmente prive di interesse.
Si parla tanto della discriminazione della donna, della sua dignità e quant’altro...ma ci vogliamo rendere conto che il dominio maschile è purtroppo insito nella stessa forma grafica della lingua italiana o no?
Perché i vocaboli di “genere” maschile si possono permettere di essere generici e quelli dell’altro sesso devono sottostare all’Apostrofo? Ad esempio, “Confessioni di un italiano” sarebbe diventato “Confessioni di un’italiana” se Nievo fosse stato donna...Formalmente le due espressioni presentano lo stessa costruzione e quasi la stessa pronuncia...ma se non metti l’apostrofo a fianco di “italiana” produci un errore ortografico abissale...allora diciamolo...l’Apostrofo diventa il velo musulmano! Si presenta come il simbolo della distinzione prodotto da linguisti indubbiamente Uomini secoli addietro. Il problema non è fonetico; lo sarebbe se la parola che seguisse l’articolo “un” “una” iniziasse con la lettera “a” (dire “una àncora”fa indubbiamente ribrezzo). Secondo un mio modesto ragionamento logico, se il problema è evitare che si dica “una anatra”, “una ancora”, “una amica”...allora ci vorrebbe anche l’apostrofo per “uno ostello”, “uno occhio”, “uno orecchio”...e invece no! Il vocabolo maschile può permettersi il lusso di fare a meno dell’apostrofo, cosicché si stagli nettamente più pulito!
Dunque, se la cultura di un popolo dipende molto dalla lingua, le Donne italiane e i letterati maschi favorevoli alla parità dei sessi dovrebbero iniziare a porsi nella letteratura al pari dell’uomo e quindi iniziando a scrivere “un oca”, “un amica”, “un ala” coscienti di non aver dimenticato niente, perché sostanzialmente vi è ben poco da comunicare. Io vedrò di provarci.